Giorno 30
Fui il primo a svegliarmi. Guardai l’ora sul cellulare, erano le undici. Non volevo far casino uscendo dalla tenda, così mi girai dall’altro lato, aspettando le sveglie programmate per le undici e mezza.
La differenza tra me e gli altri era evidente. Io ero un fiorellino. Da quando ci eravamo lasciati il pomeriggio prima, avevo dormito quindici ore su diciannove. Loro, con sole sei ore di sonno, qualche birra e una giornata trascorsa a camminare, erano un pizzico più sfatti.
Li aspettavo fuori dalla tenda, mi godevo un tiepido sole sdraiato sul prato. Il caffè era pronto.
«Buongiorno».
«Ohi, s’è svegliato il pupo».
«Se è per questo mi sono svegliato prima di te Vincent».
«E vorrei vedere. È da ieri pomeriggio che stai dormendo. Ti sei svegliato cinque minuti quando siamo rientrati. Ma a che ora eri andato a letto ieri?».
«Boh, verso le undici».
«Cioè ti sei svegliato alle otto di sera e alle undici già dormivi?».
«Sì, più o meno».
«Sei il peggio».
Ci sedemmo attorno al tavolo per fare colazione. Era l’ultimo giorno di Chiara insieme alla nostra debosciata comitiva. Ripartiva quel pomeriggio per Milano. Anche Vincent avrebbe preso un aereo, destinazione Malta. L’aveva deciso il giorno prima, avrebbe fatto una sorpresa alla sua ragazza.
«Trancio, Ma quando ve l’ha detto?».
«Ieri. Gli ho tirato un calcio nel culo».
«Nonostante le litigate, va a Malta?».
«Per quello gli ho tirato un calcio nel culo».
Saremmo tornati in quattro. Così come avevamo iniziato.
Ci andammo tutti a fare una bella doccia, sempre gradita nelle nostre condizioni. Poi iniziammo a preparare il pranzo.
«C’è un problema: abbiamo finito i piatti».
«Quindi ci tocca mangiare come animali».
Liuti infilò gli spaghetti nella tazza di porcellana da caffèllatte, sembrava uno di quei pasti pronti da cartone animato giapponese; Chiara, Trancio e Vincent si divisero le diverse ciotole. Le differenti misure li facevano apparire come i tre orsi di Riccioli d’Oro: Vincent il più grande, con la sua ciotolona; Trancio l’orso intermedio e Chiara con la scodella più piccola. Io mangiavo dalla padella del sugo e Arnù dalla pentola.
All’aeroporto finimmo i sigari della vittoria. Poi ci fu solo il tempo di due brevi scambi a pallone.
«Noi andiamo, altrimenti non riusciamo a rispettare la folle tabella di marcia».
«Ok, ci vediamo il cinque a Roma».
«Ciao Vincent, ciao Chiara, alla prossima».
Salimmo su Rorbu e ripartimmo.
«Che ore sono?».
«Le quattro e mezza più o meno».
«Insomma Goush, secondo te dove dobbiamo arrivare oggi per poter sperare in una sosta a Monaco?».
«Helsingborg credo sia un miraggio. Più ci avviciniamo e meglio è».
Ci fermammo solo per una rapida razione K. Superammo Helsingborg di una cinquantina di chilometri e, passata la mezzanotte, arrivammo alle porte di Malmö. Avevamo percorso quasi cinquecentosessanta chilometri. Eravamo molto soddisfatti.
«Troviamo un posto dove parcheggiare Rorbu e mettiamoci a dormire».
«C’è un benzinaio Statoil più avanti. Possiamo fermarci lì».
Scendemmo e nella penombra mettemmo su l’acqua per un the. Ma vedere la polizia arrivare a sirene spiegate e arrestare due loschi figuri ci fece cambiare idea.
«Beviamoci questo the, poi andiamo a cercare un posto con meno ubriachi in giro».
«E che puzzi meno di piscio».
Trovammo un’altra stazione di servizio. C’erano tre camion parcheggiati sul retro e un posto libero sotto una tettoia, ottimo per ripararsi dal sole mattutino.
«Se ci dormono i camionisti sarà un posto tranquillo».
«Io dove mi metto?».
«Ah è vero. Arnù non ha mai provato l’ebbrezza di dormire su Rorbu».
«Eh no. Allora?».
«Prendi il posto di Vincent. La fila davanti. Buonanotte».
«Buonanotte».
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